venerdì 14 settembre 2018

Sulla pelle di Stefano, sulla nostra pelle


La libertà personale è inviolabile (...).  È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
Art. 13 Costituzione Repubblica Italiana

Non è facile parlare di un film come Sulla mia pelle perché la morte di Stefano Cucchi è una pagina nera della storia italiana, che ha provocato e continua a provocare tanto dolore e tanta rabbia. È una storia che mentalmente collego ai ragazzi torturati a Genova, a Federico Aldrovandi, a Giulio Regeni: persone che non si conoscevano tra loro e che mai avrebbero pensato e desiderato di entrare nella storia d'Italia. Eppure, la loro vita ha segnato anche la mia crescita e quella di molti altri. 


Ciononostante, anche se conosco la vicenda di Stefano e provo ad immaginare quei pezzi di storia ancora mancanti, guardando il film di Alessio Cremonini è come se la apprendessi per la prima volta. Infatti, mentre impotente vedo scorrere sullo schermo gli ultimi sette giorni di vita di Stefano, i miei sentimenti vanno dall'incredulità all'angoscia, dalla rabbia alla speranza. Sì, speranza: perché mentre Stefano scivola lentamente e inesorabilmente verso la morte, nella più totale solitudine e in preda ad una sofferenza indescrivibile, pur consapevole di quanto sta per accadere, io spero che qualcuno lo porti via da quel girone dell'inferno, che qualcuno spezzi quella violenza di Stato indicibile e senza senso.


In un'intervista Alessandro Borghi, straordinario interprete di Stefano, ha affermato che avrebbe voluto gridare aiuto al suo posto. Da parte mia, io, mera spettatrice del suo calvario, vorrei scuoterlo e dirgli che deve resistere perché è importante per me. Vorrei abbracciarlo. Vorrei che i suoi genitori sfondassero le porte del carcere ed entrassero con la forza. Vorrei che ci fosse un finale diverso. L'ultimo abbraccio tra il padre e Stefano, durante il processo, è devastante, ma è con il monologo finale che la speranza è completamente schiacciata e il buio di Stefano è il nostro buio. 


Tutto questo perché mi rifiuto ancora oggi di poter credere che la vita di un ragazzo, la vita di un fratello, la vita di un figlio, la mia vita, possa essere così insignificante per lo Stato che abbiamo chiamato a proteggerci e che esiste solo perché insieme siamo più forti. Non posso credere che quella debolezza in cui è caduto Stefano, la droga, in cui cadono alcuni di noi, che siamo tutti esseri umani e in quanto tali imperfetti, in cui tanti altri potrebbero cadere in qualsiasi momento, possa portare all'indifferenza, al disprezzo, alla violenza da parte di chi è incaricato di tutelarci anche quando sbagliamo, anzi, soprattutto quando sbagliamo: il livello di "civiltà" di uno Stato si misura anche in base al modo in cui tratta i propri detenuti. Eppure, dopo nove lunghi anni, i familiari di Stefano, e noi con loro, sono ancora in attesa che i responsabili vengano individuati e condannati. Quella giustizia che ha fallito con Stefano continua a tutt'oggi a fallire e a insultare la sua memoria. 


Raramente un film è capace di emozioni che ci travolgono con tanta forza e prepotenza. Nel mio caso, Sulla mia pelle ci è riuscito, dando voce a chi non ne ha più. Non sappiamo come andrà a finire il secondo processo che coinvolge cinque carabinieri e il film non doveva e non poteva rispondere a questa domanda; quel che certamente sappiamo è che Stefano, con tutti i suoi errori, le sue contraddizioni, i suoi demoni, si è spento lentamente e in solitudine, uno stato di abbandono che ci spaventa e ci indigna perché nessuno deve e vuole morire così.  

lunedì 10 settembre 2018

I Karate Kids sono tornati e sono diventati men: COBRA KAI


Quando ho saputo, mesi fa, che sarebbe stata girata una serie TV ambientata una trentina di anni dopo i fatti narrati in The Karate Kid, ho pensato che fosse una pessima idea. Come attualizzare un vecchio cult per i ragazzi nati e cresciuti negli anni 80, ma sconosciuto ai ragazzi di oggi? Lo scetticismo era tanto. Ovviamente, vinta dalla curiosità, ho ceduto alla visione e alla fine devono ammettere che l'idea di realizzare Cobra Kai si è rivelata una scelta assolutamente brillante. 


Purtroppo, per motivi discutibili, la serie, composta da dieci puntate di circa 25 - 35 minuti ciascuna, è disponibile su Youtube in lingua inglese solo con i sottotitoli in inglese. A parte ciò, i più poliglotti potranno quindi godere del nuovo incontro/scontro tra Danny LaRusso, interpretato da Ralph Macchio, e Johnny Lawrence, interpretato da William Zabka. Alcuni di voi sapranno che i due personaggi avevano assunto una nuova dimensione cult in How I met your mother, dove erano apparsi nel ruolo di loro stessi. Ed è forse proprio grazie a How I met your mother che Cobra Kai ha assunto una certa trama, traendo spunto dalla visione che il personaggio di Barney Stinson (alias Neil Patrick Harris ) aveva del film: il vero karate kid non era Danny, bensì Johnny.


Sarebbe stato molto facile partire dalla seguente trama: Danny è il sensei illuminato di un gruppo di ragazzi sfortunati, tormentati dai bulli, proprio come Miyagi (Pat Morita) lo era stato per lui.


E invece, ripartendo da situazioni invertite rispetto al primo film della saga, gli autori decidono di complicare un po' il racconto e di renderlo più originale. Danny è diventato un uomo di successo, ha una bella famiglia ed è pure un po' antipatico. Johnny, invece, è un semplice disoccupato, che abusa di alcol e ha un pessimo rapporto con il suo unico figlio. Immediatamente lo spettatore è portato ad essere solidale con quest'ultimo, soprattutto quando difende un giovane vicino di casa, Miguel, da una banda di bulli e decide di dare lezioni di karate al ragazzino affinché impari a difendersi. Da qui la rinascita della scuola Cobra Kai, con grave disappunto da parte di Danny, che cercherà in tutti i modi di ostacolare il vecchio rivale. 


Grazie a questa scelta, la serie sceglie di non essere un'operazione puramente nostalgica, bensì rappresenta i vecchi personaggi sotto una luce nuova e i nuovi personaggi in maniera innovativa e si rifiuta di riprodurre in maniera sbrigativa lo schema narrativo della saga degli anni Ottanta. Al contrario, mette in discussione, a tratti in maniera scherzosa, a tratti in maniera più approfondita, gli stereotipi che siamo abituati a conoscere (il buono/loser, il cattivo/bullo). Pur non volendo in alcun modo giustificare il bullismo, la serie non si limita a condannare, ma si pone al contempo le seguenti domande: come nasce un bullo? Chi ha influito negativamente nella costruzione della personalità di un ragazzo? I genitori, la scuola lo sport? I ruoli di buono e cattivo si invertono continuamente, tutti i personaggi agiscono correttamente e poco dopo sbagliano, salvo poi comportarsi bene e, infine, di nuovo sbagliare: ed è così che sono le persone.


Una serie così strutturata permette di essere apprezzata non solo dai vecchi fan della saga (inclusa la sottoscritta), ma anche da nuove schiere di adolescenti, che avranno modo di riconoscersi nei personaggi più giovani, i nuovi karate kids.