Recensione di Marco Zaninelli
Titolo originale: Gamer
Paese: U.S.A.
Anno: 2009
Durata: 95 min.
Genere: azione, fantascienza, thriller
Regia: Mark Neveldine, Brian Taylor
Soggetto e sceneggiatura: Mark Neveldine, Brian Taylor
Cast: Gerald Butler, Logan Lerman, Alison Lohman, Michael C. Hall, Ludacris
Questo film è del 2009. Non mi era mai capitato di vederlo, era stato uno dei tanti film d’azione che nelle mie capatine al cinema avevo snobbato come mera violenza gratuita. Qualche sera fa lo passano in televisione, mi pare su Cielo, che tendenzialmente mette in programmazione film tutt’altro che da Empireo (perdonate la battuta, probabilmente sono riuscito ad attirarmi l’odio generale già nelle prime 4 righe).
Svogliato mi metto a guardarlo nella speranza che mi concili un rapido sonno ristoratore. E invece, maledetto a lui, no. Dopo un po’ mi avvicino un foglietto di carta. Inizio a buttare giù qualche impressione. La stanchezza e il sonno si dileguano. Continuo a scrivere.
Dai miei appunti leggo: «psichedelica distopia fantascientifica». Ditemi se un persona normale scriverebbe una cosa simile. Io faccio di peggio, la faccio anche pubblicare. In ogni caso il film è ambientato per l'appunto negli USA di un non lontano futuro (2034) in cui il sistema carcerario è al collasso. Allora il governo, d’accordo con un genio alla Zuckeberg, tale Ken Castle (Michael C. Hall, sempre eccezionale quanto deve interpretare uno psicopatico, come nella serie tv Dexter), crea un videogioco sparattutto online in cui gli utenti, attraverso un sistema di controllo remoto della mente, comandano le azioni di un detenuto condannato a morte. Questo è Slayers; il detenuto che riuscirà a vincere 30 battaglie avrà la libertà.
Potete immaginare che tutto ciò si trasformi in un cruento, disumano e terrificante modo per sfoltire le carceri stracolme. Come è immaginabile, i pochi fortunati che riescono a salvarsi tendono invece a dare segni di “leggero” squilibrio. Soltanto un condannato è stato in grado di superare ben 27 battaglie, senza morire o impazzire: il suo nome è John "Kable" Tillman (Gerard Butler) ed è controllato da un ragazzino, tale Simon (Logan Lerman, del secondo Percy Jackson e di Noi siamo infinito).
In realtà, il miliardario deve la sua ricchezza a un altro videogioco, Humanz, ovvero la versione pacifica di Slayers, una specie di Second Life, in cui però, ancora una volta, gli avatar dei giocatori sono persone reali. Uno di questi avatar è proprio la moglie di Kable. Lui ovviamente combatte per tornare dalla famiglia, ma nessuno può scampare al massacro, soprattutto se, come lui, conosce troppe cose. Ken Castle infatti progetta l’asservimento dell’umanità tramite la stessa tecnologia già usata nei due videogiochi. A contrastarlo restano solo un gruppo di sovversivi, capitanati dal rapper Ludacris, che scagliano una serie di attacchi informatici e aiutano Kable a fuggire.
La storia non è delle più originali, ma in realtà è stato il contorno ad avermi stupito: in particolare la riflessione sull’alienazione che una tecnologia troppo immersiva può provocare e il fatto che lo strepitoso successo che i due videogiochi hanno (scene di globale isteria collettiva con folle che seguono lo svolgersi delle battaglie) sia basato sulla soddisfazione dei più bassi istinti dell’uomo: la violenza, in primis, e tutte le conseguenze che derivano dalla più totale e folle libertà individuale, senza legge o etica.
Gli avatar in Humanz, totalmente alienati dalla propria volontà, offrono i propri corpi al totale controllo dell’utente esterno, in uno scenario anarchico in cui tutto è possibile; prevedibili le conseguenze: dagli abiti più assurdi, alle scenografie e gli edifici psichedelici, alla nudità gratuita, alle perversioni sessuali più contorte, allo scatenarsi di orge, risse, ferimenti provocati da utenti sadici, promiscuità, voyeurismo, ecc. Tutte azioni compiute dagli utenti nella solitudine di casa propria e poi ripetute dagli avatar nella realtà.
Interessanti anche le scelte registiche: alcuni accorgimenti ricostruiscono, o per lo meno tentano di farlo,la visuale che un giocatore avrebbe in un’esperienza di gioco su console in terza persona; rallenty sulle esplosioni e i momenti salienti, alterazioni dello schermo, rallentamenti del fluire delle azioni, ecc.
Per tutte queste cose e per il discorso che comunque cerca di portare avanti, pur nelle sue mancanze, ho pensato che un 6 fosse comunque meritato.
Svogliato mi metto a guardarlo nella speranza che mi concili un rapido sonno ristoratore. E invece, maledetto a lui, no. Dopo un po’ mi avvicino un foglietto di carta. Inizio a buttare giù qualche impressione. La stanchezza e il sonno si dileguano. Continuo a scrivere.
Dai miei appunti leggo: «psichedelica distopia fantascientifica». Ditemi se un persona normale scriverebbe una cosa simile. Io faccio di peggio, la faccio anche pubblicare. In ogni caso il film è ambientato per l'appunto negli USA di un non lontano futuro (2034) in cui il sistema carcerario è al collasso. Allora il governo, d’accordo con un genio alla Zuckeberg, tale Ken Castle (Michael C. Hall, sempre eccezionale quanto deve interpretare uno psicopatico, come nella serie tv Dexter), crea un videogioco sparattutto online in cui gli utenti, attraverso un sistema di controllo remoto della mente, comandano le azioni di un detenuto condannato a morte. Questo è Slayers; il detenuto che riuscirà a vincere 30 battaglie avrà la libertà.
Potete immaginare che tutto ciò si trasformi in un cruento, disumano e terrificante modo per sfoltire le carceri stracolme. Come è immaginabile, i pochi fortunati che riescono a salvarsi tendono invece a dare segni di “leggero” squilibrio. Soltanto un condannato è stato in grado di superare ben 27 battaglie, senza morire o impazzire: il suo nome è John "Kable" Tillman (Gerard Butler) ed è controllato da un ragazzino, tale Simon (Logan Lerman, del secondo Percy Jackson e di Noi siamo infinito).
In realtà, il miliardario deve la sua ricchezza a un altro videogioco, Humanz, ovvero la versione pacifica di Slayers, una specie di Second Life, in cui però, ancora una volta, gli avatar dei giocatori sono persone reali. Uno di questi avatar è proprio la moglie di Kable. Lui ovviamente combatte per tornare dalla famiglia, ma nessuno può scampare al massacro, soprattutto se, come lui, conosce troppe cose. Ken Castle infatti progetta l’asservimento dell’umanità tramite la stessa tecnologia già usata nei due videogiochi. A contrastarlo restano solo un gruppo di sovversivi, capitanati dal rapper Ludacris, che scagliano una serie di attacchi informatici e aiutano Kable a fuggire.
La storia non è delle più originali, ma in realtà è stato il contorno ad avermi stupito: in particolare la riflessione sull’alienazione che una tecnologia troppo immersiva può provocare e il fatto che lo strepitoso successo che i due videogiochi hanno (scene di globale isteria collettiva con folle che seguono lo svolgersi delle battaglie) sia basato sulla soddisfazione dei più bassi istinti dell’uomo: la violenza, in primis, e tutte le conseguenze che derivano dalla più totale e folle libertà individuale, senza legge o etica.
Gli avatar in Humanz, totalmente alienati dalla propria volontà, offrono i propri corpi al totale controllo dell’utente esterno, in uno scenario anarchico in cui tutto è possibile; prevedibili le conseguenze: dagli abiti più assurdi, alle scenografie e gli edifici psichedelici, alla nudità gratuita, alle perversioni sessuali più contorte, allo scatenarsi di orge, risse, ferimenti provocati da utenti sadici, promiscuità, voyeurismo, ecc. Tutte azioni compiute dagli utenti nella solitudine di casa propria e poi ripetute dagli avatar nella realtà.
Interessanti anche le scelte registiche: alcuni accorgimenti ricostruiscono, o per lo meno tentano di farlo,la visuale che un giocatore avrebbe in un’esperienza di gioco su console in terza persona; rallenty sulle esplosioni e i momenti salienti, alterazioni dello schermo, rallentamenti del fluire delle azioni, ecc.
Per tutte queste cose e per il discorso che comunque cerca di portare avanti, pur nelle sue mancanze, ho pensato che un 6 fosse comunque meritato.